SERGE LATOUCHE, GIGLIOLA BRAGA (ITALIA)



Qualche giorno fa ho partecipato a un incontro con il francese Serge Latouche che non conoscevo e di cui distrattamente avevo sentito parlare in passato. E’ un sociologo, economista, filosofo, teorico della decrescita, termine a me fino a non molto tempo fa sconosciuto, ma che da subito, fin dall’invito ricevuto per l’incontro, ritengo interessante e sconcertante al tempo stesso. La mia curiosità di conoscere meglio il punto di vista di Latouche cresce nel corso della serata per la singolarità delle teorie che espone. Mi sembra addirittura che il mio respiro si fermi quando lui comincia a parlare con toni nuovi per me di “rallentare”, di “sopravvivere allo sviluppo”, di “sciagurata teologia del PIL”, della sua proposta per il ritorno a una naturalità che io sento profondamente e alla quale lui stava dando voce e corpo. Il suo motto? “Vivere con meno è facile e perfino divertente”. Un ritorno alla preistoria sociale ed economica? No, semplicemente un riappropriarsi della propria vita, quella vera, in contrapposizione all’economia globalizzata dello sviluppo che obbliga alla corsa, al consumismo, alle leggi di mercato, le quali impongono di produrre e di cambiare: l’auto, il telefonino, il televisore, il computer, anche se funzionano ancora benissimo. Altrimenti sei out, inadeguato. La sua idea è: “Ritroviamo il piacere della vita, prima dell’ansia di fare”. Non distogliamo l’attenzione dalle origini facendoci imbrigliare dal vortice dell’usa e getta, della superficialità e delle logiche di mercato distanti dalle reali necessità. Il suo obiettivo è “rallentare, offrire alternative per concentrarsi sulla qualità della vita”. La decrescita non vuol dire tornare all’età della pietra, ma solo a quarant’anni fa, quando è cominciata la frenetica e affannosa rincorsa al cosiddetto “benessere”. La decrescita non implica “stare peggio”, ma stimola alla riflessione, per valutare cosa sia realmente il benessere, in termini individuali, sociali ed economici.

Mi sembra di sentire nelle sue parole un’affinità per le leggi della natura che spesso io, nonostante tutto, rischio di dimenticare e prevaricare con la stessa superficialità che mi accomuna ai miei contemporanei, ma che non possono essere ignorate in nome del “progresso” o della presunta superiorità del genere umano sugli altri esseri viventi e sugli equilibri naturali. Sono estremamente convinta di questi principi che forse Latouche tratta solo marginalmente durante l’incontro, ma che mi vengono evocati dalle sue parole perché questi pensieri a volte mi assalgono nella frenesia del mio lavoro… Appunto!

Insomma, Latouche propone un nuovo modello sociale in cui gli sprechi vengono considerati tali e non semplicemente una caratteristica e una prerogativa del nostro tempo. E’ coerente con le sue teorie: mi dicono che si sposta solo in treno in giro per l’Europa; vive a Parigi e sui Pirenei, in una vecchia casa in pietra che lui stesso ha rimesso a posto; non drammatizza sulla sue ginocchia calcificate e sui piedi malandati che gli impongono il bastone: “E’ giusto così, con il passare degli anni…”. Non usa espressioni simboliche, unisce la sua esperienza al sano buon senso che oggi va svanendo, ma di cui molti probabilmente vorrebbero riappropriarsi.

Come molti abili comunicatori, a volte utilizza il cibo per trasmettere meglio alcuni concetti, in modo semplice e tranquillo, come lui stesso appare nella sua struttura robusta e asciutta. “Il 30% della carne dei supermercati si butta; usiamo acque che vengono da lontanissimo, nonostante ci siano buone sorgenti vicine; mangiamo frutti esotici e buttiamo quelli locali; mangiamo il triplo del necessario ”. E qui mi sento pienamente chiamata in causa. Penso infatti quanto lo stesso potere economico abbia influito sulle disponibilità alimentari, sul tipo di offerta, sulle nostre abitudini quotidiane e in definitiva sulla nostra salute. Abbiamo lo stesso bagaglio genetico dell’uomo preistorico e mangiamo in modo completamente diverso dal passato. L’evoluzione è un fenomeno troppo lento per essere già in linea con gli alimenti attuali. E questo comporta un costo, sia umano sia sociale, per gli squilibri che crea in un organismo, il quale si ritrova a dovere utilizzare fonti difformi ed estranee alle sue capacità. L’adattamento che sa sicuramente mettere in atto richiede tempi troppo lunghi per essere efficace nell’immediato. Si evidenziano così patologie oggi purtroppo in aumento.

La copiosa e allettante offerta di cibo nei Paesi cosiddetti industrializzati costituisce un ulteriore peggiorativo perché, in questo contesto generale, rischia di perdere e di far perdere di vista il reale ruolo biologico del cibo, il quale non è una manifestazione di potenza economica, come a volte sembra essere nei carrelli della spesa stracolmi, ma è una necessità imprescindibile dalla vita. Una piacevole necessità. Che senso ha comprare oltre il necessario, per confinare nel frigorifero ogni genere di cibo che poi si deve buttare perché inevitabilmente va a male?

I temi trattati da Latouche hanno questa lunghezza d’onda. Mi accomuna a lui un’idea: il vero sviluppo non è quello socio-economico che comunemente si intende, cioè l’ansia di avere. Il vero sviluppo è coltivare l’essere, cioè l’uomo. E’ la crescita di un mondo in sintonia con le sue leggi naturali, le quali sono da tenere in giusto conto, per non danneggiare il proprio futuro con scelte ottuse e fallimentari nel tempo. Si può parlare di vero sviluppo solo quando non si non rovina l’uomo, la società in cui vive e il mondo in cui si muove. Per esempio, che senso ha produrre grassi artificiali come gli idrogenati, utili all’industria per la preparazione di prodotti che devono mantenere a lungo la freschezza, ma dannosi all’uomo? Perché intensificare certe coltivazioni e preparazioni per immettere sul mercato globale quantità spropositate di vegetali e di prodotti che non rispecchiano più la reale necessità, la naturale e sacrosanta biodiversità, i ritmi stagionali, il gusto, la territorialità? Per lo sviluppo? Di cosa? Del PIL, dei conti in banca, dei poteri economici. Non certo dell’uomo.


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